giovedì 25 gennaio 2007

Con i concorsi fiducia al merito

pubblicato su "Il Sole 24 Ore" di martedì 23 gennaio 2007
La meritoria analisi promossa dall'addetto scientifico a Londra, di cui ieri il Sole-24 Ore ha pubblicato in anteprima i risultati, fornisce il sostegno dei numeri a una verità empiricamente ben nota: l'Italia produce buoni ricercatori e ne fa gentile dono ai sistemi universitari stranieri, meglio capaci di attrarli e valorizzarli. Si scopre poi che pochi prendono seriamente in considerazione l'ipotesi di rientrare in patria, anche visto l'esito per ora grottesco del programma «Rientro dei cervelli», che a fronte di quasi 500 contratti assegnati (costo: 52 milioni) ha portato in ruolo sì e no dieci studiosi.
Le ragioni della "fuga" sono anch'esse ovvie. In Italia, l'età media alla quale si conquista un posto iniziale di ruolo, quello da ricercatore, è 38 anni. Questo significa che per 15 anni dopo la laurea il giovane studioso deve sbarcare il lunario con borse, assegni, contratti, supplenze e co.co.co. Ne conseguono - come stupirsi? - una drastica selezione sulla base del censo, visto che la precarietà si sopporta meglio da ricchi che da poveri, e un incentivo irresistibile a prendere l'aereo. La tentazione della fuga resta forte anche in fasi ulteriori della carriera, visto che al momento (ma non era così venti o trent'anni fa), si diventa ordinari alla soglia dei sessant'anni.
Naturalmente i sistemi accademici, come quello inglese, che fanno ponti d'oro ai nostri talenti in arrivo, non sono animati da spirito filantropico, ma cercano di portarsi avanti nella competizione internazionale per la ricerca e l'innovazione reclutando con procedure rapide e trasparenti i giocatori migliori, e mettendoli subito in grado di lavorare a pieno ritmo, con stipendi adeguati e soprattutto con strutture e fondi di ricerca. Mentre i giovani italiani mandano curricula in giro per il mondo, ai concorsi di casa nostra non crede ormai più nessuno. Non diciamo gli stranieri, che se ne tengono accuratamente alla larga, ma neppure le migliaia di aspiranti accademici in giro per l'Italia, pagati qualche euro per insegnare diecine di ore.
Recentemente, per un posto di ricercatore di letteratura italiana sono state avanzate otto domande, solo due candidati si sono presentati agli scritti, e uno se n'è andato prima della fine. Non si tratta di un caso isolato: partecipare a un concorso costa, e quando sa con largo anticipo di non avere chances anche un seguace di De Coubertin, comprensibilmente, lascia perdere.
A meno che non si voglia credere a una congiura antimeritocratica dei docenti italiani, le cause di questa stagnazione del sistema andranno individuate in fattori di natura culturale. L'università italiana continua a vivere nell'illusione che i meccanismi di controllo e collegialità nazionale, che avevano magari senso in un Paese con 20 università e 1.500 professori ordinari, possano perpetuarsi in un sistema universitario con 60mila docenti di ruolo, per non contare i precari. Che si possa continuare a concordare a livello nazionale chi occuperà posti in una data disciplina da Trento a Trapani, con scambi, accordi e negozi più o meno limpidi, tenendosi così al riparo dall'imprevisto e dell'ignoto. Che l'università deve tramandare il sapere, certo, ma a patto che resti ben suddiviso per tendenze e per scuole.
Al contrario, l'idea che per un concorso possano arrivare 100 o 200 domande da una dozzina di Paesi, e le si debba valutare non solo dimenticandosi dei propri discepoli, ma anche con la curiosità di esplorare nuove prospettive di ricerca, getterebbe nel panico la gran parte dei professori italiani. L'affermazione «speriamo di avere un bel gruppo di candidati», che risuona regolarmente ad Harvard, a Cambridge, a Zurigo, ma ormai anche tra Seul e Singapore, verrebbe presa, in Italia, come sintomo di instabilità mentale.
Il contrasto, profondissimo, è tra modelli epistemologici. L'Italia resta in molti settori tenacemente ancorata a un modello deterministico, all'illusione che in ogni settore qualche key player possa guidare il gioco controllandone le variabili, non importa quanto numerose o sfuggenti. L'analogia con il mondo dell'economia è istruttiva: perché stupirsi degli accordi tra professori di fronte a un concorso, o del numero abnorme di figli d'arte (soprattutto nelle discipline professionali), nel Paese dei patti di sindacato e dei salotti buoni, del controllo a cascata e dell'impresa famigliare? Per un Paese che, tutto sommato, non ha mai digerito del tutto la modernità, la sfida concettuale di un mondo incontrollabile rimane, almeno per ora, troppo ostica.
Ma di fronte a un'opinione pubblica che associa sempre più spesso la parola "università" alla parola "scandalo" (o "spreco"), non si possono attendere trasformazioni culturali di lungo periodo, né aspettare che i meccanismi di valutazione del sistema della ricerca varati in Finanziaria incomincino a influenzare i comportamenti delle istituzioni e dei singoli. Per scuotere un sistema avvitato su se stesso è urgente iniettare robuste dosi di imprevedibilità, varietà, novità, ringiovanimento, senza le quali la meritocrazia non mette radici. Nessuna legge può garantire che vincano sempre i migliori. Ma se ai concorsi incominceranno a presentarsi anche un po' di candidati veri, sarà almeno un passo avanti.
IL SOTTOSEGRETARIO MODICA A LONDRA
Meno burocrazia contro la fuga dei cervelli
Più meritocrazia, meno burocrazia: questa la promessa per il futuro dell'università italiana fatta ieri da Luciano Modica, sottosegretario del ministero per l'Università, intervenuto a Londra alla presentazione di una ricerca sulla "fuga di cervelli".
«Come Governo vogliamo cambiare questa burocrazia asfissiante fatta di timbri e cavilli infiniti, vogliamo uscire da questa camicia di forza che ci siamo messi da soli. - ha detto Modica - Decine di migliaia di ricercatori e docenti italiani lavorano all'estero e riconosciamo che per l'Italia l'allontamento delle intelligenze migliori è un problema».
La ricerca, basata su un questionario inviato alle centinaia di ricercatori e docenti italiani che lavorano nelle università britanniche, rivela che il 75% degli italiani andati a lavorare in Gran Bretagna si trova bene e ha scelto di restare, mentre il 90% di quelli che sono rientrati in Italia ha trovato condizioni di lavoro, di inquadramento professionale e di trattamento salariale molto peggiori. «La ricerca rivela che l'Italia prepara dei buoni laureati, ma il sistema non è poi in grado di assimilarli e di premiarli, - ha rilevato Roberto Amendolia, addetto scientifico presso l'Ambasciata italiana a Londra, che ha curato la ricerca. - La perdita economica nel formare persone che poi lavorano all'estero è evidente. Più grave ancora la perdita in termini di progresso e di competitività. In Italia stiamo investendo per formare i futuri leader di altri Paesi».
Modica ha accettato le critiche: «Emerge con grande chiarezza che l'Italia è percepita come un Paese burocratico, gerontocratico e nepotista. - ha detto l'ex rettore dell'Università di Pisa - D'altronde i fatti confermano che c'è poco spazio per i giovani: l'età media dei docenti universitari è di 55 anni, il che è spaventoso, e ci sono solo otto professori su 40mila che hanno meno di 35 anni. Vogliamo avviare una rivoluzione, che non si può fare in un anno e forse neanche in cinque, ma spero che questa ricerca sia una tappa importante di un nuovo cammino».
Alcuni giovani italiani ieri hanno dato testimonianza diretta delle loro difficoltà a fare ricerca o a insegnare in Italia e delle opportunità che invece sono state loro offerte in Gran Bretagna. «In Italia non vince il migliore ma il raccomandato dal potente di turno: ci vuole il coraggio di passare a una meritocrazia spietata» ha esortato Giandomenico Iannetti, che dopo una laurea e un dottorato di ricerca alla Sapienza di Roma si è trovato costretto a "emigrare" all'Università di Oxford per poter continuare, con la necessaria autonomia, la ricerca specializzata nel suo campo. (Nicol Degli Innocenti)